venerdì 28 dicembre 2012

Woody 100

Cade quest’anno un anniversario davvero speciale: cento anni fa, nel 1912 nasceva in Oklahoma l’eroe indiscusso nel nuovo folk Americano, Woody Guthrie.

Woody Guthrie fa parte della cultura mondiale, e come tutti i grossi fenomeni culturali spesso viene considerato un “monumento” acquisito, un dato di fatto, un tassello che semplicemente esiste nella storia, con cui ci si confronta staticamente. Tra lui e i nuovi autori di oggi esiste un’intera generazione di vecchi talmente grandi (citiamo Dylan, per fare un nome, ma non è l’unico esempio) che una produzione legata per lo più agli anni Trenta e Quaranta rischia di apparire solo un fenomeno del passato, il fondamentale passato da cui è nato il folk revival degli anni Sessanta. Se è certo vero che si deve a Woody questa paternità, se da un lato la nuova canzone degli anni Sessanta si nutre completamente della sua lezione, dall’altro il suo lavoro artistico rimane insuperato ed è assolutamente indipendente da quello che ne è seguito. Perché non è più esistito, e non potrà esistere, un altro Woody Guthrie. Woody è uno di quei casi unici che per onestà intellettuale dovremmo definire inclassificabili, casi che al contempo offrono, nella parabola di una vita artistica breve, la sceneggiatura del cambiamento irreversibile di una tradizione. Woody raccoglie influenze disomogenee, si appropria di modi musicali e di metodologie di narrazione, li utilizza ma al contempo li innova, filtra tutto attraverso esperienze, percorsi interiori di consapevolezza e autocoscienza. Il punto di partenza è certo la musica folk classica, quel canto popolare che nasce e si tramanda negli ambienti rurali; pezzi spesso ingenui, dalle tematiche semplici, legate alla quotidianità e alla mitologia popolare. In queste canzoni, laddove non prevalgono buonismi e disimpegno, esiste al massimo un senso di giustizia e di appartenenza, più che una vera coscienza di classe. Da qui Guthrie mutua una certa spontaneità espressiva, l’assenza di ossessione per le strutture e per la metrica (talvoltale parole a grappoli cavalcano melodie costringendo il canto a veri equilibrismi fonetici), e certe atmosfere che regalano alle sue canzoni un quid assolutamente americano. Ma Woody non si ferma alla mera imitazione del patrimonio collettivo, perché come scrive Umberto Fiori [2], l’artista nutre la matrice contadina di nuova ricerca, riprende gli schemi narrativi ma crea una propria personale poetica. Divoratore di storie e di informazioni, di libri, di giornali progressisti e di opere cinematografiche, Woody non ha paura né della tradizione né di rompere con essa, non è mai né un fruitore passivo né un rivoluzionario ad ogni costo. Ma rivoluzionario lo è per vocazione. Sparite le tematiche rassicuranti del country, emerge un’ideologia generale che all’inizo non insegue alcuna teorizzazione e continua a nutrirsi di miti e di gusto per il racconto di epopea. Un po’alla volta il filtro della coscienza politica si fa sempre più forte, ed è a questo punto che Woody si trova alle prese con la lezione di Joe Hill (leggendario canta-sindacalista giustiziato ingiustamente nello Utah nel 1915), colui che ha attualizzato il patrimonio dei canti sindacali e in genere della musica wobbly negli anni Dieci. Hill è il maestro, il punto di partenza, Woody lo studia, lo supera, e slegata infine da certi schemi satirici tipici di inizio Secolo Scorso, la canzone sindacale rinvigorita dalle esperienze dell’autore stesso, è in grado di unire l’impegno civile alla leggerezza performativa. Da questo patrimonio più strettamente militante Guthrie estrae il gusto del fatto storico, della propaganda nel senso stretto della parola, dell’attivismo coraggioso per la salvaguardia dei diritti e delle libertà. Seguendo ancora Fiori, quella di Woody è un’azione intellettuale ed artistica paragonabile a quella di un cineasta che documenta e racconta la vita reale seguendo un taglio quasi giornalistico nei modi e nella scelta linguaggio.

Infine, forse più marginalmente ma assumendo un ruolo molto importante, è la tradizione del canto di lavoro afroamericano, già genitrice di formule e contenuti del piccolo miracolo compiuto da Hill, a fornire a Guthrie un’ulteriore lezione. È proprio nelle mani di Woody che il talking-blues, filone tradizionalmente considerato minore rispetto al resto della tradizione, diventa un genere autonomo, una formula riconosciuta del canto di protesta.

A partire da questi strumenti e da una realtà sempre generosa di spunti, le possibilità narrative di Guthrie sono infinite. Tra sue le corde, tra le note arrotate della sua voce ruvida ed insolita, tutto diviene importante, degno di essere documentato e riprodotto in veste nuova, militante o romantica, progressista o divertente. Anche un genere insospettabile come la canzone per l’infanzia (ricordiamo, ad esempio la celebre Riding my car) diventa un classico di questo folk intelligente, che tutto rielabora e riveste di spessore e contenuti.

Guthrie compie un’operazione artistico-culturale che parte dal basso, spontanea e destrutturata nelle formule quanto consapevole nei contenuti. Intellettuale proletario, agisce a cavallo tra la raffinata cultura del folk revival e lo sgangherato patrimonio del popolo, in quel limbo, in quello spazio vuoto (fino a quel momento riempito in parte solo da certa tradizione della musica nera) tra canto rurale, canto d’autore e canto di lotta. Non è quindi sorprendente che sia proprio lui, anche nell’immaginario collettivo della gente comune, il grande padre della musica folk. Ad accrescere (e forse a rendere anche più difficile da decifrare) l’originalità della figura dell’artista, interviene una biografia avventurosa ed imprevedibile. Tutto ciò che lo riguarda sembra esistere nella doppia dimensione di storia e leggenda, con tutti gli usi e gli abusi a cui questa dualità si presta. Se la storia solidifica il patrimonio culturale e lo preserva negli anni, la leggenda lo plasma e lo sublima, dentro o oltre la verità, laddove, a volte, i semplici fatti sono più interessanti della mitificazione. Ma se nove volte su dieci l’aggettivo mitico (per citare De Gregori) viene generosamente sprecato, nella vita di Guthrie esiste davvero una sovrapposizione curiosa di arte ed esperienza, una sovrapposizone che incontra incidentalmente il mito cercato dell’avventura on the road di una certa affasciante contro-cultura americana e che ha contribuito al peso effettivo di questo irrequieto ragazzo di Oklahoma nella cultura del suo Paese. Spinto da un peregrinare oggettivo ed emotivo, Woody ha vissuto in prima persona momenti chiave della Storia americana della prima metà del Secolo scorso. Una vicenda quasi rubata dalla penna di Steinbeck (non a caso è Furore che ispirerà Woody per la sua Tom Joad), una vita spesa in un infaticabile percorso di comprensione del mondo e dell’umanità. Un viaggio infinito che da Okemah, la città natale, lo conduce in Texas dove vive il dramma delle delle tempeste di polvere, immortalate nel ’40 nel primo epico concept album Dust Bowl Ballads. Poi in California, tra convogli merci e accampamenti di lavoratori okies in fuga dalla siccità e dalla miseria, per arrivare in centri culturali come Los Angeles a New York, dove collabora con Alan Lomax e conosce Moses Asch (storico fondatore della Folkways Records). Incontra Pete Seeger, Ciscon Houston, Lead Belly, con loro inventa il sogno della nuova America cantata. È lui la voce dei sindacati politicizzati (figli organizzati del sindacalismo d'assalto di inizio ‘900), è lui che ne canta le gesta dei protagonisti (o delle protagoniste, come in Union maid, di cui ricordiamo una felicissima versione dei nostri Stormy Six negli anni Settanta). Ci sono poi l’Oregon con il progetto roosweltiano delle grandi opere civili, una nuova avventura per scrivere le “Columbia River Song” (The biggest thing that man has never done, Roll on Columbia). Perché a fare da sfondo a tutto questo c’è l’America delle crisi e dell’immigrazione, ma ci sono anche il New Deal, la ripresa economica, la fiducia cieca nel piano politico democratico. È di questa America progressista, che Woody scrive l’“altro” inno, la celebre This land is your land. Una canzone (che nasce nel 1940 e viene incisa per la prima volta nel 1944) così legata alla tradizione statunitense da essere diventata nei decenni un vero patrimonio nazionale, che conta decine di versioni (più o meno ufficiali); quasi esempio di opera aperta, consegnata dall’autore a tutto un popolo, autorizzato a ritrovarvi parte della propria storia e a scrivere in essa un pezzo del proprio vissuto. Nulla sembra fermare Woody, in questa corsa parallela che sono la sua vita e la storia del suo Paese. Quando poi l’ombra nera del fascismo inizia ad oscurare le speranze della terra, Woody non ha dubbi su quale sia la parte giusta, da quale parte sia necessario cantare. E se la guerra civile di Spagna si limita a cantarla (la struggente Jarama Valley dedicata all’eroica Brigata Lincoln) arriva ad arruolarsi durante la seconda guerra mondiale insieme agli amici Pete Seeger, Cisco Houston e Jimmy Longhi, un po’ soldato (lui pacifista, crede fermamente nella necessità della Guerra contro Hitler) ma soprattutto cantore-cronista, che scrive per le truppe e per la popolazione, che non ha paura di gridare All you fascist bound to lose. E’ sempre a lui, ovviamente, che Moses Asch commissiona le Ballads of Sacco and Vanzetti (1947), nel ventennale dell’esecuzione dei due anarchici. Woody canta, scrive, eccelle anche nelle arti figurative. Ci sono romanzi da scrivere, canzoni da suonare, storie da raccontare, tanti viaggi tutti dentro una sola esistenza. E ci sono anche tanti amori (tre mogli, sette figli), tante famiglie da cui tornare e fuggire. A calare il sipario di questo lungo viaggio (e siamo ormai agli anni critici del riflusso culturale e della caccia alle streghe, che rendono la vita molto difficile agli intellettuali di sinistra), arriva infine la Corea di Huntington, malattia all’epoca quasi sconosciuta, che a partire dal 1954 lentamente ed inesorabilmente lo porta via. E quando nel 1967 muore dopo anni di ospedale, vegliato dagli amici e dalla seconda moglie Marjorie, Woody è un uomo devastato nel fisico e nella mente, consumato da un declino irreversibile, un uomo molto diverso dal giovane avventuroso in cui i nuovi nomi del nuovo folk revival riconoscono una guida quasi spirituale, che ha consegnato nelle loro mani una canzone d’autore completamente rinnovata. Negli anni Sessanta il mito Guthrie è già costruito, monolitico, intoccabile, in parte relegato nel proprio ruolo storico, in parte già consegnato alla cultura ufficile, agli studi (come è anche giusto che sia), al patrimonio di una nazione. Ma molto più interessante del mito è l’uomo esile che esso nasconde, un irrequieto autodidatta che da solo, in pochissimi anni, ha avuto il tempo di fare propria un’eredità musicale multiforme, improbabilmente unificabile, per trasformarla in qualcosa di completamente diverso: un raro esempio di sintesi felice tra tradizione ed innovazione, di qualità ed intelligenza al di fuori dei circuiti ufficiali e di arte popolare al di là dei regionalismi e degli stereotipi.

Guthrie non ha certo bisogno di celebrazioni, per confermare il proprio posto nell’iperuranio della musica, ma i tanti eventi che si stanno susseguendo in tutto il mondo per festeggiare il centenario sono occasioni che contribuiscono a tenere vivo lo straordianrio patrimonio culturale ed etico lasciato dall’artista. A ricordare Woody in Italia ci ha pensato il Club Tenco. L’intera giornata di venerdì 16 novembre, dal bel titolo “Da qualche parte lungo la strada” (citazione da “Song to Woody” di Bob Dylan), è stata interamente dedicata al musicista statunitense. Si è svolta nella storica sede del Teatro Ariston, con un incontro-dibattito pomeridiamo e una serata musicale di altissimo livello, che ha visto sul palco Sara Lee Guthrie (nipote di Woody), Francesco De Gregori e Luigi Grechi con l'Orchestra Popolare Italiana di Ambrogio Sparagna, il gruppo newyorkese The Klezmatics, King of Opera, Giovanna Marini, Davide Van De Sfroos.

Ben vengano, quindi, anche le celebrazioni. E una volta finite, speriamo che ci sia sempre qualcuno (seguendo l’esempio della Woody Guthrie Foundation) che abbia voglia di continuare a preservare e diffondere quello che Guthrie ci ha lasciato. Woody si può studiare, può essere oggetto di analisi, di critica, di saggistica, ma il modo più autentico per proseguire, almeno idealmente, il suo percorso artistico, che ha unito ricerca musicale ed impegno civile, è cantare le sue canzoni ai grandi, ai bambini, nelle scuole, sui posti di lavoro, dentro e fuori le sedi ufficiali della cultura.

Ci sono percorsi che si compiono nelle accademie, altri lungo le infinite strade statunitensi che hanno accompagnato i passi arsi dal sole di migliaia di viandanti, sognatori, viaggiatori. Sembra sempre di vederlo sorridente, Woody, con quel suo sguardo simpatico e la sua chitarra battagliera (la scritta this machine kills fascist…) a cantare di ladri leggendari, di epopee, di ragazze coraggiose, di polvere, di anarchici sconfitti dalle contingenze ma non dalla storia, di umili caduti sotto il peso soprusi. Insomma, di tutti quelli che hanno bisogno di qualcuno che gridi al mondo le loro cause. Perché gli hobos, Stagger Lee, Jesse James, Sacco e Vanzetti, gli immigrati clandestini che muoiono senza nome in Deportees, non hanno e non possono avere déi. Forse sono vegliati da qualche stella solitaria, che nasce e riposa tra le grandi vallate, le immense pianure, le maestose montagne degli States. E da Woody Guthrie, protettore degli ultimi, che da qualche parte canta gli splendori e le miserie di questa terra, la sua terra. Bibliografia italiana essenziale:

[1] A. Portelli, La canzone popolare in America, Ed. De Donato, 1975.

[2] U. Fiori, Joe Hill, Woody Guthrie, Bob Dylan. Storia della canzone popolare in Usa. Ed. Mazzotta, 1977.

[3] M. Bettelli, Le canzoni di Woody Guthrie. Ed. Feltrinelli, 2008.

Sitografia:

Sito ufficiale Woody Guthrie: http://www.woodyguthrie.org/

Sito 100 anni Woody: http://www.woody100.com/

Sito Club Tenco: http://www.clubtenco.it/

(Pubblicato su All-About-Jazz http://italia.allaboutjazz.com/)

sabato 22 dicembre 2012

Il Tenco a Novara-- Serata Brassens

E' stata una bella serata, quella del 7 dicembre scorso a Novara, nuova sede che quest'anno ha affiancato Sanremo nell'ospitare un numero sorprendente di incontri dedicati alla canzoner d'autore.
Dopo gli eventi di Sanremo (ricordiamo su tutti la meravigliosa giornata del 17 novembre, dedicata a Woody Guthrie nel centenario della nascita), la cittadina piemontese è stata teatro di una tre giorni di musica e dibattiti di altissima qualità, coronata dalla serata finale dedicata alla consegna delle Targhe Tenco. In questo articolo, vorrei raccontarvi dell'evento che abbiamo dedicato a Georges Brassens, dal titolo "Il maestro irriverente", nella preziosa sede del Piccolo Coccia, nel cuore di Novara: due ore di musica e parole dedicate al grande francese, con le canzoni tradotte da Alberto Patrucco e le chiacchiere di Enrico de Angelis, Antonio Silva, Sergio Sacchi e di chi scrive.
Brassens, monumento della canzone francese (e mondiale), in Italia è ancora un personaggio piuttosto sconosciuto, o semplicemente identificato come l'autore de "Il gorilla", tradotta con successo dal grande Fabrizio De André negli anni Sessanta. Certo, di traduttori ne ha avuti diversi, e molto illustri: oltre a De André, tra i traduttori di "prima generazione" non possiamo non ricordare Nanni Svampa, che ha tradotto Brassens in dialetto milanese e in italiano, Fausto Amodei, con il suo piemomontese francesizzante e Beppe Chierici, amico personale di Brassens, attore e cantautore; inoltre, in tempi recenti, abbiamo visto un numero sempre crescente di nuovi interpreti e traduttori cimentarsi con l'eredità di Tonton Georges: tra di loro la targa Tenco Alessio Lega, il giovane Andrea Belli e soprattutto Alberto Patrucco, che da qualche anno si sta cimentando in un lavoro di traduzione profondo e didascalico, traducendo brani già affrontati da altri ma anche e soprattutto piccole perle brassensiane meno conosciute ed inedite in traduzione. Due ore di spettacolo non possono esaurire tutto quello che ci sarebbe da dire su Brassens (uno di quei personaggi infiniti che ad ogni ascolto offrono nuove sensazioni e spunti inediti), ma hanno voluto rappresentare il tentativo di divulgare l'opera di un'artista immenso, che con le sue canzoni tenere, irriverenti e dissacranti, ha scosso la Francia degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, e che ancora oggi offre messaggi quantomai attuali ed urgenti. Un artista che riesce a trovare la soluzione tra la canzonetta e la canzone impegnata, perseguendo con successo un apparente disimpegno in realtà ricco di uno sguardo originale, un punto di vista sempre critico, sempre schierato dalla parte degli ultimi. Tante le cifre stilistiche che rendono unico Brassens: dal sincretismo perfetto parole-musica alla ricerca linguistica, dalla cura della tecnica poetica alla costruzione della melodia perfetta. Una dialettica sintassi-semantica che sublima l'oggetto canzone, lo rende etereo e al contempo incisivo, in poche parole indimenticabile. Alberto Patrucco ha proposto 13 brani, che hanno illustrato le diverse tematiche della multiforme varia poetica di Brassens: l'amore, la morte, l'anticlericalismo, l'insofferenza verso il potere ed il benpensare della borghesia. Interessante il lavoro svolto sulle canzoni (in parte tradotte in collaborazione con Sergio Sacchi): traduzioni ben riuscite ed arrangiamenti (di Daniele Calderini) che restituiscono valore e profondità ad un aspetto spesso erroneamente considerato minore in Brassens, ovvero la ricerca musicale. Un lavoro musicale di gran valore, sottolineato dalle abilità interpretative di Patrucco, un lavoro che speriamo di aver arricchito con i nostri contributi, in quella che volutamente non è stata una relazione accademica (a Brassens non sarebbe piaciuto...) ma una chiacchierata profonda, in quello spirito di scambio e di divulgazione analitica che il Club Tenco da sempre propone e persegue. Per quel che mi riguarda, parlare di Brassens a lungo ad un pubblico attento come quello del piccolo Coccia è stato indimenticabile. Spero di aver divertito i cultori di Brassens, di aver aperto con loro un dialogo fecondo di discussioni e di aver incuriosito i nuovi ascoltatori. Continuo a credere che i temi delle canzoni di Georges, teneri, irriverenti, insoliti, struggenti, possano ancora scuotere le coscienze e divertire, indignare, commuovere, restituire un po' di bellezza ad un mondo ancora tutto da cambiare.