sabato 26 ottobre 2013

Intervista a Marco Santoro (Università di Bologna): Sociologia e Canzone d'autore

Marco Santoro è Professore Associato di Sociologia presso l'Università di Bologna. Si occupa di sociologia e storia delle professioni intellettuali, di teoria sociale e culturale, di sociologia dell'arte e della musica, e di mafia. Autore di numerose pubblicazioni, tra cui 12 libri come autore e curatore, è membro del comitato editoriale di riviste nazionali e internazionali; è inoltre membro fondatore delle riviste“Sociologica. Italian Journal of Sociology online”(si cui è attualmente direttore responsabile) e “Studi Culturali”, entrambe edite da “Il Mulino”. Nel 2006 ha curato con G. Plastino il numero speciale dedicato all'Italia della rivista“Popular music”. Nel 2010 ha pubblicato per Il Mulino“Effetto Tenco. Genealogia della Canzone d'Autore.” Lo abbiamo conosciuto tramite il Club Tenco e abbiamo deciso di fargli un'intervista (per la rivista All About Jazz) sulla sua prospettiva sociologica sulla cosiddetta “canzone d'autore”. Ecco quello che ci ha raccontato.
 

1) AAJ: Marco, tra i molti tuoi interessi, ti occupi di Canzone d'Autore. Riesci ad inquadrare brevemente le tue ricerche accademiche sulla canzone?

MS: i miei interessi di ricerca per il mondo della canzone risalgono alla fine degli anni Novanta. Avevo da poco pubblicato un libro sulla professionalizzazione della figura del notaio nell'Italia esito di una ricerca di dottorato, che faceva seguito a due altri libri su temi cosiddetti importanti ma un po' pedanti anche (il mercato del lavoro dei laureati e la vita culturale nel Mezzogiorno) e volevo prendere una boccata d'aria… In effetti, si trattava di un cambiamento di oggetto specifico, ma non di approccio e di questioni, nel senso che ciò che volevo studiare era appunto la nascita e le trasformazione di una categoria professionale, di un “mestiere”, quello appunto del cantautore. Avevo passato la mia adolescenza ascoltando De André, Guccini, De Gregori e molti altri cosiddetti cantautori, e la mia curiosità per questo mondo risaliva a quegli anni. A distanza di un ventennio e come sociologo, la mia curiosità si era rifinita e articolata ma era in fondo la stessa che mi accompagnava quando ascoltavo dischi o leggevo articoli di riviste musicali, recensioni o interviste ai miei “eroi”: cosa è (ancor prima di chi è) un cantautore, e come si può spiegare il successo di pubblico e soprattutto di critica di questa categoria, o meglio identità, nella vita musicale e più in generale culturale italiana? In effetti, ciò cui avevo assistito nei due decenni intercorsi tra l'ascolto intenzionale del mio primo disco di un cantautore (credo fosse Rimini di De André) e quello del mio apprendistato come sociologo era proprio il riconoscimento della figura del cantautore, e più in generale della canzone d'autore (ai tempi non distinguevo ancora chiaramente tra queste due cose, cantautore e canzone d'autore, che gli esperti invece da tempo distinguono), vale a dire la crescita e il consolidamento del loro status, o prestigio. In sociologia si parla di legittimazione per concettualizzare questa crescita di status di un oggetto o prodotto culturale. La mia questione era appunto questa: come si è legittimata la figura del cantautore, e legata a quel tipo di canzone di cui il cantautore è considerato – a torto o a ragione - artefice o rappresentante, cioè la canzone d'autore? Detto in altre parole, come ha fatto “Fabrizio” a diventare “Fabrizio De André” o “Faber”? L'esempio di De André è calzante, se si considera che i suoi primi dischi erano appunto “firmati” come Fabrizio, senza cognome, proprio per non coinvolgere la famiglia, come è noto altolocata nella società genovese, in quello che era allora a tutti gli effetti un genere culturale minore, una forma di intrattenimento di serie B, un fenomeno di “costume” come si diceva in quegli anni, e non di “cultura” (come si direbbe oggi, e si è iniziato a dire, e a rivendicare da parte di alcuni, negli anni settanta).

2) AAJ: Una specificità strutturale della sociologia della cultura è, mi sembra, legittimare oggetti culturali considerati “minori”, studiandoli, analizzandoli, in primis considerandoli degni di attenzione accademica. La canzone d'autore viene spesso considerate un genere minore, anche all'interno della musica non propriamente “colta”, in virtù della componente testuale che solitamente viene considerate prevalente su quella musicale (spesso erroneamente considerate irrilevante). Ci spieghi brevemente come si colloca l'umile “oggetto canzone” nel tuo interesse nei confronti dei fenomeni sociali?

MS: sì, in parte è così…diciamo che la sociologia in generale, per sua natura, tende a privilegiare ciò che spesso è sottoprivilegiato, marginale, deviante, minore…storicamente la sociologia si è sviluppata studiando le diseguaglianze sociali, la criminalità, la marginalità sociale, i problemi del lavoro (spesso della disoccupazione), insomma i problemi tipici di una società industriale o capitalistica se vogliamo usare questo aggettivo un po' connotato ma comunque appropriato. Nel campo della cultura, questo si traduce nello studio delle diseguaglianze rispetto ad esempio all'accesso alla scuola, nel rendimento scolastico, o anche nel rapporto con mezzi e strumenti culturali come il libro, o gli oggetti esposti nei musei, i quadri, le opere del canone musicale ecc. Lo studio sociologico della canzone e in genere della musica “popolar” o “leggera” se vogliamo usare questo aggettivo di senso comune (e sociologicamente assai rivelatore: “leggero” quindi non “pesante”, non “serio”, non “importante”.) è a tutti gli effetti parte di questa tradizione disciplinare – seppure parte a suo volta minore – e può trovare in questa tradizione disciplinare strumenti di analisi o principi di metodo particolarmente fecondi: per esempio, uno sguardo sociologico induce a mettere in questione lo statuto di leggerezza (presunto) di un certo tipo di produzione discografica o musicale in senso lato (im)ponendo questioni come le seguenti: “leggero per chi?”, “chi usa questo aggettivo, come, e con che fini?”, “cosa vuole evocare questa qualifica, e che tipo di distinzioni, o differenze, produce e riproduce?”, “che effetti anche inconsci, anche non voluti, strutturali direbbe il sociologo, genera la sua adozione acritica?” e così via…La sociologia della cultura in realtà è un campo della disciplina sociologica che ha conosciuto negli ultimi 20-30 anni una vera e propria esplosione, in parte anche a seguito della crescente rilevanza sociale, politica, ed economica di quella che una volta si diceva “cultura di massa”, e naturalmente dei media (soprattuto di quelli elettronici). Non è qui il caso di dilungarsi, ma certo il mi interesse per la canzone ha intercettato e si è alimentato anche da questa vicenda interna alla disciplina, la crescente legittimazione cioè della sociologia della cultura tra le varie aree di ricerca sociologica. Come è noto, come la storiografia, la sociologia si occupa di tutto, dal diritto all'economia, alla politica al crimine, alla famiglia sino appunto alla comunicazione e ai media e all'arte: basta che ci siano più uomini o donne che fanno cose insieme, e lì c'è materiale di ricerca sociologica. Peraltro, la canzone è indubbiamente un fenomeno sociale (e quindi sociologico), una forma espressiva che coinvolge necessariamente nella sua produzione, distribuzione, diffusione, apprezzamento, consumo sempre più persone tra loro in relazione e interazione…Basta prendere la copertina di un disco e leggere i credits per averne la prova. Senza contare ovviamente tutte le occasioni e i momenti in cui le nostre relazioni sociali sono accompagnate, persino strutturate, dall'ascolto di questa o quella canzone…

  3) AAJ: In un tuo lavoro, rivolto alla comunità accademica internazionale, spieghi “che cos'è un cantautore” e definisci la canzone d'autore, nella nostra concezione italiana, in termini di genere e di categoria estetica. La nostra nozione (effettiva o percepita) di questi due concetti è diversa rispetto, ad esempio, a quella anglosassone?

MS: Direi che più che diversa semplicemente non c'è un equivalente vero…cantautore è un neologismo italiano come canzone d'autore (poi copiato, da quel che capisco ma non ho fatto ricerche approfondite, in Spagna e in particolare in Catalogna). In inglese si dice singer-songwriter per designare ciò che noi diciamo cantautore (espressione come noto inventata letteralmente in un ufficio di una grande casa discografica romana nei primissimi anni Sessanta) che però veicola tutta un'altra serie di significati e di valori. Più legati alla “produzione materiale” che alla “produzione simbolica”. Lo stesso può dirsi di chansonnier, che rimanda a colui che pratica la chanson senza particolari pretese di significare qualcosa di più. Dire “autore” viceversa significa chiamare in causa un intero universo di discorsi e di pratiche, di giudizi e valori, che il più secco e prosaico “scrittore di canzoni” (songwriter) non sa evocare. La strada per l'invenzione della categoria di “canzone d'autore” (questa invece avvenuta negli uffici di un quotidiano locale veronese nel 1969 ad opera di Enrico de Angelis, attuale direttore artistico del Club Tenco, all'epoca giovanissimo giornalista di provincia appassionato di Tenco e delle canzoni dei primi cantautori) e soprattutto per la sua diffusione ad indicare, o meglio ad evocare, un certo genere non ben definito (e qui sta la forza simbolica del nome, la sua capacità di generare discussione e quindi di alimentare quel gioco delle distinzioni che è il cuore pulsante della vita culturale) di produzione di canzoni. E' interessante notare che né gli inventori del neologismo cantautore né tanto meno de Angelis avevano previsto il successo e le conseguenze di queste loro creature, avvenute nel primo caso per ragioni di marketing nel secondo per dare un nome ad una rubrica in cui appunto poter parlare di dischi e canzoni…

4) AAJ: Qual è la differenza tra il tuo approccio e quello dei Popular Studies (penso a Franco Fabbri in Italia e a Richard Middleton a livello internazionale), che vengono naturalmente associati, in Italia e nel mondo accademico anglosassone, allo studio della musica “leggera”?

MS: beh intanto c'è da dire che i popular music studies (di seguito PMS) non sono necessariamente ciò che è arrivato in Italia sotto questa etichetta. Quando sono nati, nel corso degli anni ottanta, I PMS erano un progetto transdisciplinare di studio e analisi del mondo o meglio dei mondi della canzone e in genere dalla popular music (e mi scuso se qui non entro nel dibattito su cosa significhi questa categoria) che includeva musicologi come sociologi, storici, critici letterari, antropologi, filosofi, studiosi di comunicazione ecc. Nel mondo anglofono è ancora così (basti dire che uno dei maggiori esponenti dei PMS, Simon Frith, è un sociologo e come sociologo ha preso un PhD a Berkeley) e lo stesso può dirsi in Francia, dove la sociologia ha acquisito una voce importante nello studio non solo e forse non tanto della chanson quanto del jazz (penso ad un recente convegno parigino sulla circolazione globale del jazz organizzato appunto da sociologi e in cui la parte del leone è stata svolta da sociologi e anche storici sociali non solo francesi ma anche americani e inglesi, che da anni hanno eletto questa espressione artistico-culturale ad oggetto legittimo di studio). In Italia non è quasi mai (stato) così per ragioni in parte contingenti (singole biografie individuali) in parte strutturali che hanno a che vedere con il funzionamento del mondo accademico da un lato e con quello del giornalismo musicale dall'altro. In breve, nella misura in cui I PMS sono equiparati in Italia a ciò che fa per dire Franco Fabbri allora è chiaro che I PMS sono altro rispetto alla sociologia della cultura o della musica. Ma Fabbri rappresenta – e in modo egregio e autorevole – una delle correnti o delle direzioni di ricerca nel campo variegato dei PMS, quello più musicologo e se vogliamo semiotico. Il versante sociologico è stato indubbiamente trascurato o meglio poco e forse male coltivato in questi decenni (ma contano anche le biografie individuali, e le difficoltà generazionali), e quindi quando si parla di PMS in genere ci si riferisce in Italia a quella branca della musicologia minoritaria e di certo “dominata” (dalla musicologia che conta, quella che studia la musica c.d classica ovvero quella accolta nel canone occidentale della musica) che è appunto la musicologia popular. In effetti, con i miei studi ho cercato sempre anche di legittimare un approccio sociologico allo studio della canzone che non mi sembrava sufficientemente legittimato né da parte della musicologia popular né da parte della sociologia (che almeno in Italia ha a lungo del tutto trascurato la canzone come oggetto di studio). Se volessi spiegare in una battuta la differenza tra musicologia popular e sociologia della musica popular potrei dire così: la prima studia la canzone nella sua struttura interna mettendo sullo sfondo il suo contesto, la seconda si focalizza sul contesto in cui la canzone (mai davvero tematizzata o analizzata, e considerate un po' come black box) nasce e compie il suo ciclo di vita. Ma si tratterebbe di una semplificazione fuorviante e che non renderebbe giustizia né alla musicologia popular (che spesso studia I contesti) né la sociologia della canzone (che spesso studia I processi creativi e non manca di entrare nel “testo” della canzone, nella sua tessitura interna sia sonora che lirica o poetica o come vogliamo chiamarla). La vera distinzione secondo me sta qui: il musicologo (e qui I PMS sono comunque eredi di Adorno in quanto appunto musicologo e filosofo della musica) ha l'ambizione o comunque il compito di interpretare personalmente il senso e il valore della canzone, facendosi aiutare nella sua interpretazione (che è poi in fondo un giudizio di valore) da una lettura metodica ma anche immanente come direbbe Adorno della canzone o del brano e possibilmente (ma non necessariamente) da una conoscenza anche raffinata del contesto sociale in cui la canzone esiste; il sociologo sospende il giudizio di valore (il suo) e va a studiare come gli attori o agenti sociali, insomma il mondo sociale, interpreta la canzone, attribuisce ad essa valori e significati, e usa la canzone (una canzone specifica, un certo repertorio, un genere, o la canzone in generale come forma espressiva) nella sua vita quotidiana e in certi momenti storicamente più o meno rilevanti.

5) AAJ: Nel tuo libro “Effetto Tenco” (Edizioni Il Mulino, 2010), tu porti avanti una tesi interessante, ovvero che il suicidio di Luigi Tenco (avvenuto a San Remo nel gennaio 1967 ) abbia agito da evento catalizzatore, in quanto generatore di un “trauma collettivo” per la nascita e ancor più per la legittimazione culturale della canzone d'autore. Potresti argomentare questa tesi?

MS: in breve, ciò che dico nel libro è che non ci sarebbe canzone d'autore – nel senso in cui questa espressione si è sviluppata ed è utilizzata nella nostra cultura cioè come categoria estetica attraverso cui si cerca di stabilire e giustificare delle distinzioni nel mare magnum della produzione di canzoni – se non ci fosse stato un certo accadimento, un certo evento (concetto questo che nel libro viene elaborato e precisato, come quel tipo particolare di accadimento che genera trasformazioni di strutture, cioè dei modi consolidati di agire, pensare e relazionarsi) che ha in effetti segnato irrimediabilmente il mondo della canzone italiana e partendo da qui quello più ampio della cultura, e non solo “di massa”. E questo evento è stato il suicidio – che sia stato davvero suicidio o no poco rileva per il mio argomento, quello che conta è che così sia stato recepito e intepretato da attori sociali influenti – di un “giovane” (mica tanto poi, aveva 29 anni) cantautore nel corso di un festival canoro che capitava di essere seguito da milioni di italiani e trasmesso e di fatto controllato dall'agenzia televisiva di stato, in un periodo in cui questo significava controllo di una certa forza politica (la DC per intenderci) che aveva responsabilità di governo. Insomma, il suicidio di un cantante-autore in quello che doveva essere un grande momento di evasione collettiva (forse il più grande in quegli anni) ha gettato un'ombra lunga sul mondo della musica leggera che evidentemente così leggera forse non era se qualcuno poteva uccidersi per lei. Tenco è stato preso sul serio (non da tutti ma certo da alcuni attori individuali e collettivi rilevanti e influenti nella vita pubblica di allora e degli anni successive) forse anche più delle sue intenzioni o di ciò che poteva sperare – e questo nonostante il suo impegno e anche un certo suo capitale culturale, dato anche dai suoi peraltro minimi studi universitari (ma tra gli esami dati dallo studente Tenco, ed è un aspetto della sua biografia che naturalmente ha attirato la mia attenzione, c'era anche quello di Sociologia!) E intorno a quella morte imprevista e imprevedibile si è generato in pochissimo tempo quello che chiamo nel libro appunto un “trauma culturale”, un momento di rottura, di disorientamento collettivo, di disagio che aveva bisogno di essere affrontato e risolto in qualche modo. Uno di questi modi, un modo che risultò alla fine vincente almeno in certe sfere o zone di vita culturale pubblica nazionale, fu appunto la costruzione di una nuova categoria che potesse identificare ciò per cui potrebbe valere la pena lottare, al limite del rischio della vita, appunto la canzone d'autore: un tipo di canzone che per alcuni suoi tratti (mai precisamente definiti, ma sta qui ripeto la forza di questa categoria, la sua produttività “politica” nel senso di potenzialità di generare dibattito e discussione e confronto e appunto lotta) si staglia sul resto della produzione “canzonettista” (e uso nona caso qui questo aggettivo, riconoscendone il suo valore dispregiativo per come viene utilizzato) e distinguendosi attribuisce un valore superiore, speciale, di lunga durata, storico quindi, alla canzone come forma espressiva – che non è tutta uguale ma richiede appunto uno sforzo, e una capacità, di decifrazione ed apprezzamento. In questo processo, un ruolo davvero cruciale è stato svolto dal Club Tenco, in particolare dal secondo, quello fondato a Sanremo nel 1972 da Amilcare Rambaldi e tuttora operativo anche se in difficoltà crescenti (specie finanziarie). Questa è una lezione della sociologia che non smetto mai di ripetere, anche ai miei studenti: non c'è nulla nel mondo, non esiste niente intorno a noi che non sia frutto dall'attività, spesso nascosto agli occhi del profano, di una qualche organizzazione e di chi ci lavora dentro. Non esisterebbe canzone d'autore se non si fosse generata in Italia, nei due decenni dopo la morte di Tenco, un movimento di idee e di azioni che hanno trovato sbocco in una serie di iniziative o imprese organizzate, da alcune riviste specializzate ad etichette discografiche anch'esse specializzate sino appunto a cose in apparenti minori ma in realtà essenziali per la creazione delle identità e dei valori ad esse connesse come i premi o i vari riconoscimenti, che col pretesto di premiare in realtà fanno esistere, costituiscono come riferimenti identitari, quindi come supporto a ciò che si è e si dà nel mondo. Di tutti i premi che esistono nel nostro paese, in genere organizzati o gestiti da macchine festivaliere o da cordate di critici-giornalisti, non ce n'è nessuno che è durato nel tempo e che ha acquisito la forza legittimante come il Premio Tenco (guarda caso). Ne sono nati tanti di premi dopo questo, dedicati alla canzone d'autore, ma nessuno ha saputo eguagliare il Tenco. Merito questo del suo personale e del suo impegno, ma anche della forza simbolica nel cui nome la macchina ha operato, coinvolgendo le figure più significative di una tradizione che esso stesso, il Club, stava contribuendo a inventare...

6) AAJ: Quello su cui vorrei porre l'accento, sempre rispetto al Suo libro, è l'utilizzo di “metodologie formali” della sociologia nell'analisi di un fenomeno come la canzone d'autore. Lei propone una tesi, una serie di strumenti e di categorie descrittive, e porta di fatto diverse evidenze empiriche a sostegno della sua tesi. Che cosa ci insegna l'approccio “scientifico” se applicato allo studio di un oggetto o di genere artistico, che solitamente si indaga partendo da discipline, prospettive e soprattutto metodi di analisi differenti?

MS: non vorrei usare questo aggettivo che trovo un po' troppo abusato specie nelle scene sociali…I sociologi dibattono da oltre un secolo sullo statuto epistemologico della loro disciplina, chi sostenendo che è – o almeno dovrebbe essere – una scienza chi invece negando la possibilità e anche il senso e la proficuità di una “scienza” sociologica, privilegiando un dialogo con il mondo delle humanities (filosofia, critica letteraria, storia, ecc.) più che con quello delle scienze cosiddette esatte (posto che questa distinzione abbia un senso a sua volta, e come sappiamo i filosofi della scienza e della conoscenza dibattono su questo, tra l'altro). Diciamo che ciò che il sociologo chef a bene il suo mestiere non si accontenta di fare ipotesi o avanzare tesi ma cerca sempre di fornire delle prove a ciò che dice – come lo storico del resto - siano queste fornite da resoconti di chi c'era o c'è o da rianalisi di dati statistici o dall'analisi di documenti personali e istituzionali (per dire, lo statuto del Club Tenco è un documento istituzionale che dice qualcosa su quali fossero le intenzioni quanto meno dichiarate dei suoi fondatori, tra cui quel grande imprenditore culturale che è stato Amilcare Rambaldi; ma sono evidenze empiriche anche I racconti o le riflessioni dello stesso Rambaldi o di De André a distanza di anni dal suicidio di Tenco, o quelle di Salvatore Quasimodo a poche settimane dall'evento).

7) AAJ: Marco, in Effetto Tenco, tu parli di musica, senza (quasi) mai parlare di musica. Quanto è servita la tua conoscenza musicale e la tua passione per la canzone d'autore nella stesura del suo testo e nella Sua indagine sociologica?

MS: Beh, in effetti di musica se ne parla poco, anche se ho sentito il bisogno di chiedere ad un amico musicologo, Roberto Agostini, di fare un'analisi di Ciao amore ciao, che ho incorporato poi nel libro (con debito riconoscimento anche se in nota!), e se ho fatto tesoro di alcune celebri analisi delle canzoni tenchiane da parte di Giovanna Marini…in effetti, questa potrebbe considerarsi una lacuna del libro, cioè una limitata attenzione alla parte musicale della canzone, e una focalizzazione forse eccessiva sui testi delle canzoni (ne cito e “leggo” diverse, qua e là nel libro, specie di quel sottogenere strategico che chiamerei “canzone d'autore riflessiva”, cioè canzoni su alter canzoni o meglio su chi le canzoni le scrive, in breve canzoni sulla figura del cantautore, da Cantautore di Bennato a L'avvelenata di Guccini). Non credo però che si tratti di autentica lacuna se questa disattenzione alla musica viene valutata in funzione dell'obiettivo centrale del libro, che è appunto quello di rendere conto della nascita di una certa categoria estetica e delle conseguenze che un certo evento in apparenza minore e bislacco, persino assurdo, ha prodotto sulla struttura stessa della vita culturale italiana. Per capire la portata di questi effetti dovremmo pensare ad esempio alle tante occasioni o ai tanti eventi anche mediatici a cui assistiamo quotidianamente in cui un certo tipo di canzone funziona come marchio identificante di un intero stile di vita, o di una visione del mondo. Penso ad esempio ad una trasmissione che ha catalizzato l'audience qualche tempo fa, Vieni via con me, o al ruolo che la canzone d'autore (e in particolare alcuni esempi di questa canzone) svolge nella strutturazione di programmi televisivi che definiscono movimenti d'opinione (Che tempo che fa) o di movimenti sociali e civili veri e propri (il movimento antimafia ad esempio). Quello che voglio dire facendo questi esempi è che la canzone d'autore – e chi ha prodotto le condizioni per la sua successive identificazione e poi per la costruzione dell'apparato, della macchina organizzativa che ha diffuso questo concetto e se mi si passa il termine l'ideologia, in senso positivo, che la accompagna – ha contribuito a creare il vocabolario, che non è solo lessicale e quindi cognitivo ma anche affettivo, quello dei sentimenti, con cui nell'Italia contemporanea si pensa e si pratica la vita civile e politica. Il suicidio di Tenco è un evento nel senso specificato prima perché ha provocato una trasformazione delle strutture del sentire e del pensare degli italiani che sulle canzoni di Tenco, o di chi con Tenco collaborava o che con Tenco faceva canzoni negli anni sessanta (De André in primis, uno dei pochissimi “colleghi” a partecipare al funerale del cantautore suicida) o di chi Tenco con il suo gesto ha “smosso” (e tra questi ricorso Gaber e Dalla, che di Tenco erano amici e che con Tenco erano in gara a Sanremo nel '67) o di chi da Tenco e dal suo gesto hanno poi preso ispirazione o “senso” (e come non citare qui tra gli altri De Gregori che ha scritto ben due canzoni su quell'evento, e Bennato che ha accettato di salire per la sua prima ed unica volta sul palco di Sanremo solo per poter suonare e cantare a distanza di 40 anni Ciao amore ciao) si sono formati, hanno sperimentato quella che potremmo chiamare la loro educazione sentimentale, morale e civile…

8) AAJ: Vorrei proporti la seguente riflessione. Penso a quello che è successo con il jazz: un certo modo di fare musica (che, semplificando, nasce dal blues, prima espressione artistica del conflitto razziale, genere dalla forte connotazione anticapitalista), ha incarnato un atteggiamento espressivo caratteristico della comunità afroamericana, rappresentando un'affermazione culturale, ovvero la legittimazione dell'esistenza di una certo tipo di cultura all'interno della cultura dominante (penso a movimenti come l'Harlem Renaissance…). Facendo le debite proporzioni (differenze tessuto sociale, minore urgenza del conflitto cultura dominante/alternativa) quale tipo di identità culturale ha incarnato, se lo ha fatto, la canzone d'autore in Italia?

MS: direi che non ce n'è una sola ma diverse, anche per le diverse generazioni che si sono succedute da allora, dico dalla fine dei sessanta…ma non ci sono molti dati, evidenze empiriche per dirlo con una ragionevole certezza. Purtroppo la nostra conoscenza di questo mondo della canzone d'autore è ancora piuttosto frammentaria e mancano ricerche serie sui modi in cui essa viene recepita, consumata, utilizzata, interpretata da chi la ascolta o l'ha ascoltata. Comunque secondo me, e questo è qualcosa che dico nel libro anche se non sviluppo, la forza della canzone d'autore sta proprio nel suo non essere circoscrivibile ad un solo utilizzo, o ad una unica cultura di riferimento, o ad uno specifico stile di vita o concezione del mondo…anche nella canzone d'autore si danno anime diverse, e queste anime coesistono seppure alcune sono forse più influenti, in un certo periodo o luogo…ma è proprio l'indefinitezza del genere, la permeabilità dei confini ad aver permesso alla canzone d'autore non solo di legittimarsi ma anche di rinnovarsi, di riprodursi in parte ma adattandosi ai nuovi contesti e a inediti stili (anche di vita). Pensa a come la canzone d'autore si è contaminata con la cultura hip hop, con la canzone rap, nel nostro paese (su questo ho pubblicato un articolo tempo fa con un mio giovane collaboratore, sulla rivista “Popular Music”).

9) AAJ: Marco, tu sei un sociologo, quindi mi permetto di farti una domanda forse un po' difficile, anche perché conosci la realtà studentesca di Bologna, che credo offra una prospettiva privilegiata sulle nuove generazioni. Pensando all'attuale contesto socio-culturale, e alla globalizzazione del mondo artistico, all'esacerbazione della riproducibilità e della produzione in massa del prodotto artistico esiste, secondo te, un genere musicale in grado di inquadrare l'identità culturale (almeno in parte) delle nuove generazioni?

MS: Direi la musica elettronica…un miscuglio di generi e gusti accomunati dall'impiego della tecnologia elettronica di produzione sonora, in parte ballabile in parte d'ascolto o d'ambiente (anche qui si da questa distinzione, si generano differenze tra un'ala più sofisticata, riflessiva, sperimentale, ed una più d'evasione…un meccanismo che si ritrova un po' ovunque, anche all'interno del campo della canzone d'autore a ben pensarci). Musica globale per eccellenza, che si presta a infinite reinterpretazioni e riterritorializzazioni, per usare un concetto sin troppo usato. E che però a differenza della canzone d'autore gioca tutto sul suono, anche sul rumore, sul ritmo, sul battito, e non sulla parola. Ecco, devo dire, sulla base della mia conoscenza delle generazioni più giovani di ascoltatori di canzoni, che se c'è un genere che in qualche modo si presenta oggi come alternativo a quello della canzone d'autore è proprio quello dell'elettronica. Per i cultori di questo genere le canzoni di De André e di Guccini, ma anche di Dylan e Tom Waits, suonano vecchie, superate, antiche quasi. Il che non vuol dire che dietro non ci siano motivazioni o ispirazioni o bisogni o sensibilità analoghi, penso alla techno che è nata in una Detroit in fase di deindustrializzazione (con molta disoccupazione e criminalità crescente) nei quartieri neri come musica per la rivendicazione di una presenza nera non subalterna e alternativa nei luoghi per eccellenza dell'intrattenimento bianco, le discoteche… che è peraltro proprio il mondo rispetto a cui la canzone d'autore si è costituita come “altra” negli anni settanta e ottanta. Devo dire che allora partecipavo a questa alterità, a questa negazione con convinzione, oggi molto meno. Perché il corpo, il movimento, le emozioni di pancia e non solo di testa hanno anche loro una parte nella musicalità dell'uomo, e questo la canzone d'autore mi pare sia costitutivamente incapace di assecondare o coltivare. Almeno, la canzone d'autore che ancora va per la maggiore…

Per approfondimenti:
Marco Santoro, Effetto Tenco. Genealogia della Canzone d'Autore, Il Mulino, 2010.








venerdì 11 gennaio 2013

Fabrizio

In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità, a me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa. Sentivo la mia terra vibrare di suoni, era il mio cuore e allora perché coltivarla ancora, come pensarla migliore. Libertà l'ho vista dormire nei campi coltivati a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato. Libertà l'ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato per un fruscio di ragazze a un ballo, per un compagno ubriaco. E poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare. Finii con i campi alle ortiche finii con un flauto spezzato e un ridere rauco ricordi tanti e nemmeno un rimpianto.

martedì 1 gennaio 2013

venerdì 28 dicembre 2012

Woody 100

Cade quest’anno un anniversario davvero speciale: cento anni fa, nel 1912 nasceva in Oklahoma l’eroe indiscusso nel nuovo folk Americano, Woody Guthrie.

Woody Guthrie fa parte della cultura mondiale, e come tutti i grossi fenomeni culturali spesso viene considerato un “monumento” acquisito, un dato di fatto, un tassello che semplicemente esiste nella storia, con cui ci si confronta staticamente. Tra lui e i nuovi autori di oggi esiste un’intera generazione di vecchi talmente grandi (citiamo Dylan, per fare un nome, ma non è l’unico esempio) che una produzione legata per lo più agli anni Trenta e Quaranta rischia di apparire solo un fenomeno del passato, il fondamentale passato da cui è nato il folk revival degli anni Sessanta. Se è certo vero che si deve a Woody questa paternità, se da un lato la nuova canzone degli anni Sessanta si nutre completamente della sua lezione, dall’altro il suo lavoro artistico rimane insuperato ed è assolutamente indipendente da quello che ne è seguito. Perché non è più esistito, e non potrà esistere, un altro Woody Guthrie. Woody è uno di quei casi unici che per onestà intellettuale dovremmo definire inclassificabili, casi che al contempo offrono, nella parabola di una vita artistica breve, la sceneggiatura del cambiamento irreversibile di una tradizione. Woody raccoglie influenze disomogenee, si appropria di modi musicali e di metodologie di narrazione, li utilizza ma al contempo li innova, filtra tutto attraverso esperienze, percorsi interiori di consapevolezza e autocoscienza. Il punto di partenza è certo la musica folk classica, quel canto popolare che nasce e si tramanda negli ambienti rurali; pezzi spesso ingenui, dalle tematiche semplici, legate alla quotidianità e alla mitologia popolare. In queste canzoni, laddove non prevalgono buonismi e disimpegno, esiste al massimo un senso di giustizia e di appartenenza, più che una vera coscienza di classe. Da qui Guthrie mutua una certa spontaneità espressiva, l’assenza di ossessione per le strutture e per la metrica (talvoltale parole a grappoli cavalcano melodie costringendo il canto a veri equilibrismi fonetici), e certe atmosfere che regalano alle sue canzoni un quid assolutamente americano. Ma Woody non si ferma alla mera imitazione del patrimonio collettivo, perché come scrive Umberto Fiori [2], l’artista nutre la matrice contadina di nuova ricerca, riprende gli schemi narrativi ma crea una propria personale poetica. Divoratore di storie e di informazioni, di libri, di giornali progressisti e di opere cinematografiche, Woody non ha paura né della tradizione né di rompere con essa, non è mai né un fruitore passivo né un rivoluzionario ad ogni costo. Ma rivoluzionario lo è per vocazione. Sparite le tematiche rassicuranti del country, emerge un’ideologia generale che all’inizo non insegue alcuna teorizzazione e continua a nutrirsi di miti e di gusto per il racconto di epopea. Un po’alla volta il filtro della coscienza politica si fa sempre più forte, ed è a questo punto che Woody si trova alle prese con la lezione di Joe Hill (leggendario canta-sindacalista giustiziato ingiustamente nello Utah nel 1915), colui che ha attualizzato il patrimonio dei canti sindacali e in genere della musica wobbly negli anni Dieci. Hill è il maestro, il punto di partenza, Woody lo studia, lo supera, e slegata infine da certi schemi satirici tipici di inizio Secolo Scorso, la canzone sindacale rinvigorita dalle esperienze dell’autore stesso, è in grado di unire l’impegno civile alla leggerezza performativa. Da questo patrimonio più strettamente militante Guthrie estrae il gusto del fatto storico, della propaganda nel senso stretto della parola, dell’attivismo coraggioso per la salvaguardia dei diritti e delle libertà. Seguendo ancora Fiori, quella di Woody è un’azione intellettuale ed artistica paragonabile a quella di un cineasta che documenta e racconta la vita reale seguendo un taglio quasi giornalistico nei modi e nella scelta linguaggio.

Infine, forse più marginalmente ma assumendo un ruolo molto importante, è la tradizione del canto di lavoro afroamericano, già genitrice di formule e contenuti del piccolo miracolo compiuto da Hill, a fornire a Guthrie un’ulteriore lezione. È proprio nelle mani di Woody che il talking-blues, filone tradizionalmente considerato minore rispetto al resto della tradizione, diventa un genere autonomo, una formula riconosciuta del canto di protesta.

A partire da questi strumenti e da una realtà sempre generosa di spunti, le possibilità narrative di Guthrie sono infinite. Tra sue le corde, tra le note arrotate della sua voce ruvida ed insolita, tutto diviene importante, degno di essere documentato e riprodotto in veste nuova, militante o romantica, progressista o divertente. Anche un genere insospettabile come la canzone per l’infanzia (ricordiamo, ad esempio la celebre Riding my car) diventa un classico di questo folk intelligente, che tutto rielabora e riveste di spessore e contenuti.

Guthrie compie un’operazione artistico-culturale che parte dal basso, spontanea e destrutturata nelle formule quanto consapevole nei contenuti. Intellettuale proletario, agisce a cavallo tra la raffinata cultura del folk revival e lo sgangherato patrimonio del popolo, in quel limbo, in quello spazio vuoto (fino a quel momento riempito in parte solo da certa tradizione della musica nera) tra canto rurale, canto d’autore e canto di lotta. Non è quindi sorprendente che sia proprio lui, anche nell’immaginario collettivo della gente comune, il grande padre della musica folk. Ad accrescere (e forse a rendere anche più difficile da decifrare) l’originalità della figura dell’artista, interviene una biografia avventurosa ed imprevedibile. Tutto ciò che lo riguarda sembra esistere nella doppia dimensione di storia e leggenda, con tutti gli usi e gli abusi a cui questa dualità si presta. Se la storia solidifica il patrimonio culturale e lo preserva negli anni, la leggenda lo plasma e lo sublima, dentro o oltre la verità, laddove, a volte, i semplici fatti sono più interessanti della mitificazione. Ma se nove volte su dieci l’aggettivo mitico (per citare De Gregori) viene generosamente sprecato, nella vita di Guthrie esiste davvero una sovrapposizione curiosa di arte ed esperienza, una sovrapposizone che incontra incidentalmente il mito cercato dell’avventura on the road di una certa affasciante contro-cultura americana e che ha contribuito al peso effettivo di questo irrequieto ragazzo di Oklahoma nella cultura del suo Paese. Spinto da un peregrinare oggettivo ed emotivo, Woody ha vissuto in prima persona momenti chiave della Storia americana della prima metà del Secolo scorso. Una vicenda quasi rubata dalla penna di Steinbeck (non a caso è Furore che ispirerà Woody per la sua Tom Joad), una vita spesa in un infaticabile percorso di comprensione del mondo e dell’umanità. Un viaggio infinito che da Okemah, la città natale, lo conduce in Texas dove vive il dramma delle delle tempeste di polvere, immortalate nel ’40 nel primo epico concept album Dust Bowl Ballads. Poi in California, tra convogli merci e accampamenti di lavoratori okies in fuga dalla siccità e dalla miseria, per arrivare in centri culturali come Los Angeles a New York, dove collabora con Alan Lomax e conosce Moses Asch (storico fondatore della Folkways Records). Incontra Pete Seeger, Ciscon Houston, Lead Belly, con loro inventa il sogno della nuova America cantata. È lui la voce dei sindacati politicizzati (figli organizzati del sindacalismo d'assalto di inizio ‘900), è lui che ne canta le gesta dei protagonisti (o delle protagoniste, come in Union maid, di cui ricordiamo una felicissima versione dei nostri Stormy Six negli anni Settanta). Ci sono poi l’Oregon con il progetto roosweltiano delle grandi opere civili, una nuova avventura per scrivere le “Columbia River Song” (The biggest thing that man has never done, Roll on Columbia). Perché a fare da sfondo a tutto questo c’è l’America delle crisi e dell’immigrazione, ma ci sono anche il New Deal, la ripresa economica, la fiducia cieca nel piano politico democratico. È di questa America progressista, che Woody scrive l’“altro” inno, la celebre This land is your land. Una canzone (che nasce nel 1940 e viene incisa per la prima volta nel 1944) così legata alla tradizione statunitense da essere diventata nei decenni un vero patrimonio nazionale, che conta decine di versioni (più o meno ufficiali); quasi esempio di opera aperta, consegnata dall’autore a tutto un popolo, autorizzato a ritrovarvi parte della propria storia e a scrivere in essa un pezzo del proprio vissuto. Nulla sembra fermare Woody, in questa corsa parallela che sono la sua vita e la storia del suo Paese. Quando poi l’ombra nera del fascismo inizia ad oscurare le speranze della terra, Woody non ha dubbi su quale sia la parte giusta, da quale parte sia necessario cantare. E se la guerra civile di Spagna si limita a cantarla (la struggente Jarama Valley dedicata all’eroica Brigata Lincoln) arriva ad arruolarsi durante la seconda guerra mondiale insieme agli amici Pete Seeger, Cisco Houston e Jimmy Longhi, un po’ soldato (lui pacifista, crede fermamente nella necessità della Guerra contro Hitler) ma soprattutto cantore-cronista, che scrive per le truppe e per la popolazione, che non ha paura di gridare All you fascist bound to lose. E’ sempre a lui, ovviamente, che Moses Asch commissiona le Ballads of Sacco and Vanzetti (1947), nel ventennale dell’esecuzione dei due anarchici. Woody canta, scrive, eccelle anche nelle arti figurative. Ci sono romanzi da scrivere, canzoni da suonare, storie da raccontare, tanti viaggi tutti dentro una sola esistenza. E ci sono anche tanti amori (tre mogli, sette figli), tante famiglie da cui tornare e fuggire. A calare il sipario di questo lungo viaggio (e siamo ormai agli anni critici del riflusso culturale e della caccia alle streghe, che rendono la vita molto difficile agli intellettuali di sinistra), arriva infine la Corea di Huntington, malattia all’epoca quasi sconosciuta, che a partire dal 1954 lentamente ed inesorabilmente lo porta via. E quando nel 1967 muore dopo anni di ospedale, vegliato dagli amici e dalla seconda moglie Marjorie, Woody è un uomo devastato nel fisico e nella mente, consumato da un declino irreversibile, un uomo molto diverso dal giovane avventuroso in cui i nuovi nomi del nuovo folk revival riconoscono una guida quasi spirituale, che ha consegnato nelle loro mani una canzone d’autore completamente rinnovata. Negli anni Sessanta il mito Guthrie è già costruito, monolitico, intoccabile, in parte relegato nel proprio ruolo storico, in parte già consegnato alla cultura ufficile, agli studi (come è anche giusto che sia), al patrimonio di una nazione. Ma molto più interessante del mito è l’uomo esile che esso nasconde, un irrequieto autodidatta che da solo, in pochissimi anni, ha avuto il tempo di fare propria un’eredità musicale multiforme, improbabilmente unificabile, per trasformarla in qualcosa di completamente diverso: un raro esempio di sintesi felice tra tradizione ed innovazione, di qualità ed intelligenza al di fuori dei circuiti ufficiali e di arte popolare al di là dei regionalismi e degli stereotipi.

Guthrie non ha certo bisogno di celebrazioni, per confermare il proprio posto nell’iperuranio della musica, ma i tanti eventi che si stanno susseguendo in tutto il mondo per festeggiare il centenario sono occasioni che contribuiscono a tenere vivo lo straordianrio patrimonio culturale ed etico lasciato dall’artista. A ricordare Woody in Italia ci ha pensato il Club Tenco. L’intera giornata di venerdì 16 novembre, dal bel titolo “Da qualche parte lungo la strada” (citazione da “Song to Woody” di Bob Dylan), è stata interamente dedicata al musicista statunitense. Si è svolta nella storica sede del Teatro Ariston, con un incontro-dibattito pomeridiamo e una serata musicale di altissimo livello, che ha visto sul palco Sara Lee Guthrie (nipote di Woody), Francesco De Gregori e Luigi Grechi con l'Orchestra Popolare Italiana di Ambrogio Sparagna, il gruppo newyorkese The Klezmatics, King of Opera, Giovanna Marini, Davide Van De Sfroos.

Ben vengano, quindi, anche le celebrazioni. E una volta finite, speriamo che ci sia sempre qualcuno (seguendo l’esempio della Woody Guthrie Foundation) che abbia voglia di continuare a preservare e diffondere quello che Guthrie ci ha lasciato. Woody si può studiare, può essere oggetto di analisi, di critica, di saggistica, ma il modo più autentico per proseguire, almeno idealmente, il suo percorso artistico, che ha unito ricerca musicale ed impegno civile, è cantare le sue canzoni ai grandi, ai bambini, nelle scuole, sui posti di lavoro, dentro e fuori le sedi ufficiali della cultura.

Ci sono percorsi che si compiono nelle accademie, altri lungo le infinite strade statunitensi che hanno accompagnato i passi arsi dal sole di migliaia di viandanti, sognatori, viaggiatori. Sembra sempre di vederlo sorridente, Woody, con quel suo sguardo simpatico e la sua chitarra battagliera (la scritta this machine kills fascist…) a cantare di ladri leggendari, di epopee, di ragazze coraggiose, di polvere, di anarchici sconfitti dalle contingenze ma non dalla storia, di umili caduti sotto il peso soprusi. Insomma, di tutti quelli che hanno bisogno di qualcuno che gridi al mondo le loro cause. Perché gli hobos, Stagger Lee, Jesse James, Sacco e Vanzetti, gli immigrati clandestini che muoiono senza nome in Deportees, non hanno e non possono avere déi. Forse sono vegliati da qualche stella solitaria, che nasce e riposa tra le grandi vallate, le immense pianure, le maestose montagne degli States. E da Woody Guthrie, protettore degli ultimi, che da qualche parte canta gli splendori e le miserie di questa terra, la sua terra. Bibliografia italiana essenziale:

[1] A. Portelli, La canzone popolare in America, Ed. De Donato, 1975.

[2] U. Fiori, Joe Hill, Woody Guthrie, Bob Dylan. Storia della canzone popolare in Usa. Ed. Mazzotta, 1977.

[3] M. Bettelli, Le canzoni di Woody Guthrie. Ed. Feltrinelli, 2008.

Sitografia:

Sito ufficiale Woody Guthrie: http://www.woodyguthrie.org/

Sito 100 anni Woody: http://www.woody100.com/

Sito Club Tenco: http://www.clubtenco.it/

(Pubblicato su All-About-Jazz http://italia.allaboutjazz.com/)

sabato 22 dicembre 2012

Il Tenco a Novara-- Serata Brassens

E' stata una bella serata, quella del 7 dicembre scorso a Novara, nuova sede che quest'anno ha affiancato Sanremo nell'ospitare un numero sorprendente di incontri dedicati alla canzoner d'autore.
Dopo gli eventi di Sanremo (ricordiamo su tutti la meravigliosa giornata del 17 novembre, dedicata a Woody Guthrie nel centenario della nascita), la cittadina piemontese è stata teatro di una tre giorni di musica e dibattiti di altissima qualità, coronata dalla serata finale dedicata alla consegna delle Targhe Tenco. In questo articolo, vorrei raccontarvi dell'evento che abbiamo dedicato a Georges Brassens, dal titolo "Il maestro irriverente", nella preziosa sede del Piccolo Coccia, nel cuore di Novara: due ore di musica e parole dedicate al grande francese, con le canzoni tradotte da Alberto Patrucco e le chiacchiere di Enrico de Angelis, Antonio Silva, Sergio Sacchi e di chi scrive.
Brassens, monumento della canzone francese (e mondiale), in Italia è ancora un personaggio piuttosto sconosciuto, o semplicemente identificato come l'autore de "Il gorilla", tradotta con successo dal grande Fabrizio De André negli anni Sessanta. Certo, di traduttori ne ha avuti diversi, e molto illustri: oltre a De André, tra i traduttori di "prima generazione" non possiamo non ricordare Nanni Svampa, che ha tradotto Brassens in dialetto milanese e in italiano, Fausto Amodei, con il suo piemomontese francesizzante e Beppe Chierici, amico personale di Brassens, attore e cantautore; inoltre, in tempi recenti, abbiamo visto un numero sempre crescente di nuovi interpreti e traduttori cimentarsi con l'eredità di Tonton Georges: tra di loro la targa Tenco Alessio Lega, il giovane Andrea Belli e soprattutto Alberto Patrucco, che da qualche anno si sta cimentando in un lavoro di traduzione profondo e didascalico, traducendo brani già affrontati da altri ma anche e soprattutto piccole perle brassensiane meno conosciute ed inedite in traduzione. Due ore di spettacolo non possono esaurire tutto quello che ci sarebbe da dire su Brassens (uno di quei personaggi infiniti che ad ogni ascolto offrono nuove sensazioni e spunti inediti), ma hanno voluto rappresentare il tentativo di divulgare l'opera di un'artista immenso, che con le sue canzoni tenere, irriverenti e dissacranti, ha scosso la Francia degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, e che ancora oggi offre messaggi quantomai attuali ed urgenti. Un artista che riesce a trovare la soluzione tra la canzonetta e la canzone impegnata, perseguendo con successo un apparente disimpegno in realtà ricco di uno sguardo originale, un punto di vista sempre critico, sempre schierato dalla parte degli ultimi. Tante le cifre stilistiche che rendono unico Brassens: dal sincretismo perfetto parole-musica alla ricerca linguistica, dalla cura della tecnica poetica alla costruzione della melodia perfetta. Una dialettica sintassi-semantica che sublima l'oggetto canzone, lo rende etereo e al contempo incisivo, in poche parole indimenticabile. Alberto Patrucco ha proposto 13 brani, che hanno illustrato le diverse tematiche della multiforme varia poetica di Brassens: l'amore, la morte, l'anticlericalismo, l'insofferenza verso il potere ed il benpensare della borghesia. Interessante il lavoro svolto sulle canzoni (in parte tradotte in collaborazione con Sergio Sacchi): traduzioni ben riuscite ed arrangiamenti (di Daniele Calderini) che restituiscono valore e profondità ad un aspetto spesso erroneamente considerato minore in Brassens, ovvero la ricerca musicale. Un lavoro musicale di gran valore, sottolineato dalle abilità interpretative di Patrucco, un lavoro che speriamo di aver arricchito con i nostri contributi, in quella che volutamente non è stata una relazione accademica (a Brassens non sarebbe piaciuto...) ma una chiacchierata profonda, in quello spirito di scambio e di divulgazione analitica che il Club Tenco da sempre propone e persegue. Per quel che mi riguarda, parlare di Brassens a lungo ad un pubblico attento come quello del piccolo Coccia è stato indimenticabile. Spero di aver divertito i cultori di Brassens, di aver aperto con loro un dialogo fecondo di discussioni e di aver incuriosito i nuovi ascoltatori. Continuo a credere che i temi delle canzoni di Georges, teneri, irriverenti, insoliti, struggenti, possano ancora scuotere le coscienze e divertire, indignare, commuovere, restituire un po' di bellezza ad un mondo ancora tutto da cambiare.

sabato 29 ottobre 2011

GB 30


29 ottobre 1981, Saint-Gély-du-Fesc, Sa Majesté la Mort si porta via Tonton Georges.
Un pensiero per lui, per le sue favole, alle sue canzoni che ancora fanno ridere, commuovere, pensare.






...

Pauvres rois pharaons pauvre Napoléon

Pauvres grands disparus gisant au Panthéon

Pauvres cendres de conséquence

Vous envierez un peu l'éternel estivant

Qui fait du pédalo sur la plage en rêvant

Qui passe sa mort en vacances

....



(Supplique pour être enterré sur la plage de Sète)


Dal XIV arrondissement, proprio vicino a dove, per molti anni, ha vissuto con Jeanne e Marcel,
Marghi

giovedì 21 luglio 2011

Per Carlo Giuliani

La bellissima canzone di Ale: